Ambrogio Santambrogio

Sul rapporto tra scienza e società: un contributo sociologico

 

Magnifico Rettore, Presidente Tajani, Autorità, Colleghi e Studenti, Personale tecnico e amministrativo, Signore e Signori 

 

santambrogioLa conoscenza ha avuto, nella storia dell’intera umanità, una triplice dimensione e una triplice funzione. Essa è sempre stata: 1. la risposta a una curiosità esistenziale; 2. un modello di auto-rappresentazione di noi stessi e del mondo, fisico e sociale, che ci sta intorno; 3. uno strumento per intervenire nella realtà. In tutte le sue forme – quella del mito, della magia, della religione e, infine, della scienza – questi tre aspetti sono sempre presenti e variamente intrecciati.

Il fatto è che oggi il terzo aspetto sta diventando sempre più dominante. Il sapere che ci fornisce la scienza – forse la forma principale di conoscenza dei nostri giorni – è sempre più soffocato dalla tecnica, dalle sue esigenze e dalle sue possibili ricadute. Risponde in prima battuta a un bisogno di intervento sul mondo e sempre meno a una disinteressata esigenza di conoscenza e a una presa di consapevolezza critica del nostro essere e del nostro contesto esistenziale. Non a caso, la cosiddetta ricerca di base è sempre più soffocata dagli imperativi, scientifici e di mercato, della ricerca applicata.

All’interno delle scienze sociali, e in particolare della sociologia, la questione ha assunto le vesti di quello che Max Weber ha chiamato processo di razionalizzazione, processo con il quale si identificano diverse caratteristiche importanti del divenire moderno, prima dei Paesi europei e occidentali, poi progressivamente del resto del mondo. Non si tratta necessariamente di un aumento di razionalità nella nostra capacità di conoscere la realtà, quanto piuttosto della possibilità di avere strumenti efficaci per intervenire tecnicamente in essa: una società razionalizzata non è detto sia anche una società più razionale, tutt’altro. Soprattutto, questa è l’ipotesi, l’affermazione della terza funzione della conoscenza va a discapito della prima e della seconda: la tecnica cannibalizza la scienza.

Le parole di Weber descrivono bene la situazione:


rendiamoci chiaramente conto di che cosa propriamente significhi (…) questa razionalizzazione intellettualistica per opera della scienza e della tecnica orientata scientificamente (…). Chiunque di noi viaggi in tram non ha la minima idea – a meno che egli non sia un fisico specializzato – di come la vettura riesca a mettersi in moto. Né d’altronde ha bisogno di saperlo (…). La progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione non significa dunque una progressiva conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano (…). Tutte le scienze danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso[1].


Difficile dare torto a Weber, soprattutto oggi. Se sostituiamo al tram il cellulare, internet, facebook, e tutte le nuove tecnologie, appare sorprendente constatare la correttezza della sua posizione: nessuno di noi sa come esse funzionino e, nonostante ciò o forse proprio per questo, ognuno di noi orienta la propria condotta in conformità ad esse. La domanda sul “come” sembra aver soppiantato definitivamente quella sul “perché”. Facciamo cose perché possiamo farle, ma non sappiamo con certezza perché le facciamo: il senso è nascosto dietro la possibilità tecnica e, alla fine, cancellato da quest’ultima.

Ho l’impressione però che Weber, nella sua analisi del mondo moderno e del rapporto tra scienza e società, si faccia eccessivamente prendere dal suo pessimismo esistenziale, in parte dovuto anche ad elementi biografici e di appartenenza di ceto. È proprio vero che la scienza è condannata a dimenticare la complessità della conoscenza – i tre aspetti sopra menzionati – per diventare serva della tecnica? Per rispondere alla domanda, vorrei ripercorrere brevemente quel progetto illuminista secondo il quale la scienza può sostituire mito e religione nella capacità di fornire all’umanità un senso alla propria avventura terrena. Si tratta forse della prospettiva che più coerentemente ha pensato che la scienza potesse effettivamente svolgere le tre funzioni sopra identificate, rendendo progressivamente desuete le precedenti forme di conoscenza.

Occorre però, per prima cosa, chiarire un punto: ciò che è qui oggetto di riflessione non è la validità del sapere scientifico in sé, quanto piuttosto il “significato culturale” della scienza, cioè come essa si rapporta con il più ampio contesto della vita culturale e sociale. In effetti, a questo fine – a quello della domanda sul senso – non è detto che inevitabilmente e immediatamente un sapere “vero” – in senso scientifico – sia la migliore risposta alle domande di cui sopra. Da qui forse deriva probabilmente il grande successo cognitivo che mito e religione hanno storicamente avuto. E, significativamente, il progetto illuminista/positivista ha come presupposto centrale proprio l’idea che un sapere vero, nella fattispecie proprio quello della scienza, possa costituire anche una forma di conoscenza nelle tre dimensioni di cui stiamo discutendo. Per semplificare, farò riferimento alla ricostruzione della questione fatta da Jürgen Habermas[2]. Secondo Habermas, il modello illuminista/positivista del rapporto tra scienza e società fa leva su alcuni aspetti, che brevemente di seguito descrivo.

1. Il superamento della dimensione teleologica aristotelica/tomista: non c’è più una “finalità”, un telos, interno alla cosa, che guida e limita in senso teleologico il raggiungimento della perfezione del sapere, ma i progressi della conoscenza sono guidati in modo contingente da un continuo e progressivo processo di apprendimento. Lo spirito umano non misura i propri progressi in rapporto all’avvicinamento ad un telos dato, bensì alla “attività priva di impedimenti della propria intelligenza, quindi ad un meccanismo di apprendimento. Apprendere significa superare con intelligenza degli ostacoli”[3].

2. Questi ostacoli sono tipicamente rappresentati dal pregiudizio e dalla superstizione. La scienza ha soprattutto una funzione di illuminazione: l’emancipazione dal pregiudizio avviene mediante la diffusione, ricca di conseguenze pratiche (e non solo tecniche), delle conoscenze scientifiche. Da ciò deriva il ruolo sociale delle scienze: la funzione della “filosofia” sull’opinione pubblica sta primariamente, come sostiene Nicolas de Condorcet, nel “sottoporre qualsiasi opinione al vaglio della ragione”. Lo scienziato “filosofo” svolge, anzi deve svolgere, un fondamentale compito di educazione, che va al di là della mera e semplice trasmissione del proprio sapere.

3. La concezione illuminista della scienza crea un ponte tra l’idea del progresso scientifico e quella per cui le scienze servono anche al perfezionamento morale degli uomini. Nella lotta contro le opinioni, contro i poteri della tradizione incarnati nella Chiesa e nello Stato, l’illuminismo esige il coraggio di avvalersi della propria ragione, proprio perché si può fare riferimento alla forza critica delle scienze. Sempre con le parole di Condorcet, “non vi è sistema religioso, fantasticheria travalicante la natura che non sia fondata sull’ignoranza delle leggi di quest’ultima”. Sviluppo delle scienze naturali e sviluppo delle scienze morali sono una cosa sola.

4. Di conseguenza, è possibile pensare ad un progresso anche delle forme della convivenza civile. Crescita della conoscenza naturale e crescita della conoscenza morale sono i presupposti per un modello “razionale” di convivenza civile che, a sua volta, garantisce il dispiegamento di entrambe. Si pensi, per fare un esempio, al progetto kantiano di pace perpetua, fondato sull’idea di repubblica.

Questo modello – tipico del primo illuminismo – evidenzia però almeno quattro fondamentali limiti.

1. L’idea che esista un’unica linea evolutiva di progresso basata sulla ragione, per cui le scienze sviluppano un sapere unico, che si accumula lungo un semplice e coerente processo cumulativo. Questa idea è stata messa in discussione da gran parte della recente filosofia della scienza e, in particolare, da Thomas Kuhn. Al di là della complessità della questione – l’idea kuhniana di non cumulabilità, legata al concetto di paradigma scientifico, è stata radicalmente criticata –, la concezione illuminista tiene poco conto di una serie di variabili soggettive, storiche e sociali che ne rendono problematica la fiduciosa e ingenua applicazione. E, soprattutto, l’idea di una unica linea evolutiva porta con sé quella per cui tutti i problemi cui avevano dato risposta le dottrine religiose e filosofiche (i cosiddetti pregiudizi) siano affrontabili scientificamente e risolvibili razionalmente, oppure ridotti a pseudo-problemi e di conseguenza eliminati. La scienza cioè, poco a poco, appiana e risolve i problemi del senso, sostituendo un sapere razionale a mito, religione e filosofia.

2. Questa razionalizzazione, o “illuminazione”, del sapere è considerata intrinseca allo spirito umano e non espressione, per lo meno in parte, di un dato contesto storico, nella fattispecie quello europeo. Ne deriva perciò che il diffondersi planetario della scienza porta con sé il diffondersi planetario della civiltà moralmente più avanzata, guarda caso quella raggiunta dai popoli più “illuminati”.

3. Il nesso sopra visto tra sviluppo degli aspetti cognitivi e sviluppo di quelli pratico-morali fa troppo ingenuamente e direttamente da fondamento al presupposto dell’unità di ragione teorica e pratica. Per lo meno da Karl Marx in poi, le questioni di competenza della ragion pratica non possono essere semplicemente affrontate dalla “filosofia”. Come efficacemente dice Habermas, “le armi della critica hanno bisogno della critica delle armi”[4]. Esiste una dimensione dura e autonoma del legame sociale, che solo una più complessa teoria dell’azione è in grado di cogliere, per cui la società non è solo il luogo del progressivo dispiegamento della illuminazione illuminista.

4. Infine, si dà per scontata l’efficacia empirica del sapere teorico. Quali sono piuttosto i modi con cui la verità scientifica/teorica diventa convincente negli argomenti pratici, e come essa diventa empiricamente operante? Il modello in esame confida nell’efficacia “automatica dello spirito, sul fatto che l’intelligenza umana sia orientata all’accumulazione di sapere”[5] e, mediante la diffusione del sapere accumulato, nel fatto che, di conseguenza, si generi di per sé un aumento di civiltà.

Alla luce di queste criticità, la concezione illuminista della scienza perde la sua efficacia nella possibilità di costituire una soluzione ai problemi di senso, anche sulla base della sua natura di pregiudizio. Non sembra allora esserci differenza sostanziale con quelle dimensioni – religione, mito o filosofia – che si intendeva superare. La ragione illuminista si dimostra anch’essa gravata da “pregiudizi”. Proprio a partire da queste criticità, Weber sviluppa quella sua idea di disincanto che lo porta al concetto di razionalizzazione tecnica sopra descritto. La fine del progetto illuminista ingenera una valutazione pessimistica della civiltà scientificizzata, intesa come società dominata dalla tecnica: venendo meno le prime due funzioni della scienza in quanto conoscenza (curiosità esistenziale; modello di auto-rappresentazione del mondo), rimane centrale solo quello di strumento tecnico per intervenire nella realtà. Per andare oltre il pessimismo weberiano, ai fini della comprensione del rapporto tra scienza e società nel nostro mondo, la questione di fondo può essere allora cosi formulata: la razionalizzazione del sapere interna alla scienza può mantenere le sue potenzialità di emancipazione rispetto alle immagini magico-religiose del mondo?

Abbiamo sopra brevemente visto che non è possibile la società razionale, e probabilmente quella unità di ragione teorica e morale propugnata dagli illuministi è irraggiungibile. Del resto, assistiamo oggi ad una sempre più pressante domanda di senso, cui la scienza non è in grado di rispondere e, parallelamente, è in corso un ritorno prepotente della religione e di altre forme irrazionali di solidarietà sociale. Proprio a fronte di questi fenomeni sociali dobbiamo porci, soprattutto noi “scienziati”, la questione fondamentale: che ruolo ha la scienza per la società? E per la sfera pubblica? Costituisce un linguaggio universale a disposizione dei diversi modi di pensare? E se sì, come può esercitare tale funzione all’interno della formazione, ad esempio, dell’opinione pubblica?

Provo a suggerire alcune idee. Innanzi tutto, partendo da una riflessione sulla situazione in cui si trovano le scienze oggi, e su un aspetto in particolare. Le nostre discipline, sia quelle scientifiche che quelle umanistiche, sono attraversate da un processo di progressiva specializzazione, che aumenta esponenzialmente con la qualità e l’importanza dei risultati raggiunti. Per parlare solo della mia disciplina, ricordo che la mia formazione di sociologo è stata caratterizzata anche da una certa curiosità dilettantesca, che spingeva a leggere non solo testi della materia estranei ai miei specifici interessi sociologici, ma anche libri e articoli di altre discipline, di economia, storia, psicologia, filosofia. Inoltre, ci veniva insegnato che nessuna ricerca può essere propriamente vista come un fine in sé: essa rimanda sempre a quell’insieme di problemi da cui inizialmente emerge con un atto di selezione intrinsecamente arbitrario. Oggi, invece, la sociologia non sembra più capace di studiare la “società”. Allo stesso modo, le scienze naturali studiano ancora la “natura”? E le scienze mediche il “corpo umano”? Abbiamo forse tutti abbandonato il problema dell’insieme, di quella capacità – mossa dalla mera curiosità intellettuale – tesa a conoscere razionalmente il mondo, a fornire una immagine di esso?

Questo penso sia il punto fondamentale: la ricerca scientifica, soprattutto in un’epoca di elevata specializzazione, deve essere un lavoro collettivo. Non solo nel senso che occorre fare ricerca insieme ad altri, ma anche in quello più radicale e profondo per cui qualsiasi risultato, per quanto importante, rimane sostanzialmente muto se non viene inserito in un contesto più ampio di conoscenza. Naturalmente, non si può invertire lo sviluppo della specializzazione: quest’ultima costituisce un meccanismo intrinseco al progresso delle scienze. Occorre però – proprio avendo preso atto di tale irreversibilità – tornare a pensare alla conoscenza come ad un progetto ampio, fatto anche di ricomposizione di saperi specialistici.

Si tratta di favorire una contaminazione utile anche a pensare il non ovvio, l’insolito, a produrre nuove prospettive di ricerca; di accettare il rischio di dover imparare da altri; di vedere il proprio risultato scientifico come la tessera – più o meno grande, più o meno importante – di un mosaico complessivo che nessuno da solo può più padroneggiare, a differenza di quello che facevano i sapienti antichi. Nella prospettiva di non lasciare il problema del senso solo a conoscenze extra-scientifiche, in particolare a nuove ideologie escludenti e a religioni totalizzanti.

Il progetto illuminista di un sapere razionale al servizio dell’umanità può essere allora del tutto attuale se viene, in prima battuta, abbandonata quella ingenua hybris per cui la scienza può definitivamente sostituirsi alla religione; e, in seconda battuta, se viene rifiutato un modello di scienza che coincide con la sua applicabilità tecnica. La ricomposizione dei nostri saperi specialistici deve poter offrire alla più ampia comunità sociale nella quale lo scienziato è inserito una conoscenza pubblica e condivisa che sia autonoma, indipendente e critica. Critica perché parzialmente svincolata dalle appartenenze sociali e culturali di cui si nutre il dibattito pubblico. E per garantire questo parziale distacco diventano centrali il ruolo delle università pubbliche, intese come il luogo privilegiato dove si produce questa conoscenza, e quello degli intellettuali. Questi ultimi dovrebbero riguadagnare quel distacco dalle appartenenze del mondo che consente il parziale distacco della conoscenza da loro prodotta. Provocatoriamente, penso si tratti di prospettare un parziale ritorno nella torre d’avorio (magari “pubblica” e non privata!) e la fine di quel modello di intellettuale engagée, che tanti danni ha fatto nella recente storia del “secolo breve”.

L’idea di una ricomposizione di saperi specialistici – utile a mantenere un modello non solo tecnicista di scienza – è compatibile con una qualsiasi forma di società, oppure può prosperare all’interno di un particolare contesto di azione collettiva? La domanda è ovviamente retorica. Se, dopo aver riflettuto sulla scienza, ci si soffermasse brevemente sull’idea di società alla quale questo modello neo-illuminista del rapporto tra scienza e società può proficuamente portare il suo contributo, inevitabilmente il pensiero va ad un’idea di democrazia che sia viva, ricca e partecipata. Una democrazia all’interno della quale le identità non si nutrano di pregiudizi, ma siano, da un lato, disponibili a portare il proprio contributo ad un dialogo vero e proficuo; dall’altro, capaci di quella ragionevole apertura che consente di comprendere, valutare e affrontare non solo le dure condizioni che la realtà ci pone, ma anche le indicazioni e i contributi di conoscenza offerti da un sapere indipendente, critico e oggettivo.

In questa direzione, il progetto di un grande spazio pubblico democratico europeo è la sfida che i tempi pongono ad ogni cittadino consapevole. La ricerca scientifica può portare un notevole contributo a questa costruzione, non solo se si sviluppa una familiarità a fare ricerca insieme, sostenuta e finanziata dalle istituzioni comunitarie, ma anche, significativamente, se questa ricerca mira a produrre una cultura dell’Europa disponibile per tutti e capace di sostenerne l’identità. A questo proposito, non si può non ricordare come l’idea di un’Europa comune, solidale e basata sulla conoscenza reciproca – idea che sembra entrata largamente in crisi agli occhi di ampi settori dell’opinione pubblica – ha proprio nel mondo universitario il suo terreno d’elezione e il suo estremo baluardo, ora che anche grandi porzioni del mondo politico-istituzionale sembrano aver perso fiducia nell’ideale europeo. È la comunità transnazionale dei professori, dei ricercatori e degli studenti che considera oggi l’Europa un approdo naturale e un destino comune. Sarà dunque un bene se a questa comunità le istituzioni comunitarie vorranno dedicare nel futuro sempre più attenzione e risorse.

Recentemente, durante l’ultima campagna elettorale in vista del referendum costituzionale, una importante forza politica ha invitato, testualmente, a “votare con la pancia”. Al di là di chi avesse nel merito ragione o torto, proprio questo è ciò che una corretta funzione sociale della scienza deve contribuire ad evitare: essa deve portare un proprio contributo di riflessività critica dentro al dibattito pubblico, che aiuti a prendere decisioni lungimiranti e consapevoli, non dettate da prese di posizione meramente identitarie e irrazionali. Oltre alle sue ricadute tecniche, la scienza potrebbe così fornire – se indirizzata, oltre agli specialismi, verso una ricomposizione dei saperi – un apporto importante anche alla prima e alla seconda funzione della conoscenza. In questa direzione, mi sembra ancora attuale, soprattutto se depurato dal suo dogmatismo, il progetto illuminista, che trovo perfettamente formulato nelle seguenti parole di Kant.

 

A questo rischiaramento non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma sento gridare da ogni lato: non ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete! Qui c’è restrizione alla libertà dappertutto. Ma quale restrizione è d’ostacolo all’illuminismo e quale invece non lo è e piuttosto lo favorisce? Io dico: il pubblico uso della propria ragione deve essere libero in ogni tempo ed esso solo può realizzare il rischiaramento tra gli uomini[6].

 

L’augurio è che, almeno nelle nostre università pubbliche, si continuino a difendere e a promuovere le condizioni per l’uso della libertà più inoffensiva.

 

[ PROLUSIONE PROF. SANTAMBROGIO A.A. 2016/2017 ]

 


[1] M. Weber, La scienza come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1983, pp. 19-20, 26.

[2] Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, il Mulino, Bologna 1983.

[3] J. Habermas, op. cit., p. 233.

[4] J. Habermas, op. cit., p. 237.

[5] J. Habermas, op. cit., p. 238.

[6] I. Kant, Risposta alla domanda: che cosa è l’Illuminismo?, in Sette scritti politici liberi, Firenze University Press, Firenze 2011, p. 55.